ll commercio a Roma vale 14 miliardi di euro. Una stima potenziale dei consumi che rappresenta il 30% del Pil della Capitale. Questi i primi numeri che identificano il valore del settore commerciale capitolino, diffusi nel convegno annuale dal titolo “Roma Capitale. La via del commercio, la città d’Europa”, organizzato per la decima edizione da Big&Small. Un appuntamento per discutere delle criticità del commercio a Roma, comprendente il food, no food e horeca (ristorazione), che offre un’occasione di dibattito per avviare possibili strategie di sviluppo.

Stando ai dati contenuti nel rapporto sulla “Geografia Commerciale”, elaborati da Methos analizzando i database del Campidoglio, la città di Roma, divisa in 5 macroaree commerciali, può vantare enormi potenzialità, seppur distribuite in modo irregolare sul territorio: 137.752 esercizi commerciali e 55.114 licenze per esercizi di vicinato, con una concentrazione più alta nel quadrante nord-est, a cui si aggiungono i 136 mercati rionali per un bacino di utenza che sfiora i 3,4 milioni di persone, tra residenti, pendolari e turisti. 

«Uno squilibrio territoriale - sostiene Mauro Loy, marketing manager di Methos - che è la conseguenza di una disorganicità normativa, ancora priva di un Piano del Commercio, che si avvia verso l'ineluttabile adozione della direttiva comunitaria (c.d. Bolkestein)».

Ma nel commercio non sono esclusivamente le leggi a deciderne il successo, piuttosto il mercato, deciso da chi compra. Per delineare il quadro delle attività commerciali, il Rapporto sulla Geografia Commerciale, ha analizzato 167 insegne del non food, 45 del food e 28 della ristorazione, prendendo in considerazione alcuni parametri: qualità percepita (da un campione di 580 utenti), prezzo, servizio e valore del mercato. Il risultato sottolinea che, chi è sopravvissuto ad una crisi lunga dieci anni, è riuscito ad adeguarsi al rapido cambiamento, razionalizzando i costi e modulando l’offerta sulle esigenze dei consumatori.

Entrando nel dettaglio. Il food, che vale il 56,8% del budget delle famiglie, è il settore più maturo e strutturato. Quello in cui le insegne della grande distribuzione hanno saputo creare economie di scala, rivolgendo un’attenzione privilegiata alle nuove richieste del consumatore, per esempio puntando sui rapporti di “vicinato”, come la gastronomia calda e il prodotto fresco.

La ristorazione invece, risulta un settore ampiamente frammentato, tanti piccoli e pochi grandi, dove le 28 catene presenti sul territorio si dividono circa il 10/12% del mercato. Secondo i dati del rapporto in questo campo il tasso d’innovazione dell’offerta è basso, appiattito sui trend del momento e la professionalità scarsa. Il “no food” invece, a partire dagli anni Novanta, ha visto l’affermazione dei monomarca, un effetto della globalizzazione, con il conseguente cambiamento nello stile dei consumi.

Un esempio su tutti, i saldi, che non hanno più lo stesso valore di un tempo, in quanto l’e-commerce e gli outlet hanno aumentato la competizione nella vendita, spingendo il prezzo dei prodotti verso il basso. Tra gli attori intervenuti al convegno, nonostante le difficolta da superare, pervade comunque un certo ottimismo e la convinzione condivisa che Roma debba e possa diventare in futuro una capitale anche dal punto di vista economico.

Per Lorenzo Tagliavanti, presidente della Camera di Commercio di Roma, «la crisi ha distrutto il modello romano costruito negli anni passati e basato su tre pilastri: commercio, costruzioni, spesa pubblica. Una crisi quantitativa e qualitativa che ha portato via ai romani il 7% del Pil», generando però «due dati paradossali. La crescita notevole del numero delle imprese specialmente nel commercio e food, circa 60 mila in più, che non ha eguali in altre aree del paese. Il secondo paradosso, riguarda l’aumento degli occupati: circa 180 mila da quando è iniziata la crisi».

Ma nonostante la crescita di imprese ed occupati il Pil romano pre-crisi non è stato ancora recuperato. La risposta risiede nella tipologia di imprese create. «Sono nate le imprese di necessità, non abbiamo creato lavoro, ma i cosiddetti lavoretti», dice ancora Tagliavanti che sostiene «in futuro saranno le capitali a trainare lo sviluppo economico, quindi se l’Italia vuole crescere deve curare le sue aree metropolitane: Milano e Roma».

E se Roma vuole essere la grande area, traino del paese, Tagliavanti suggerisce «dobbiamo avere due grandi fari. Il primo è la smart-city, in cui la tecnologia cambi tutti gli ambiti, dai consumi, alla scuola fino alle produzione aziendali, compreso l’artigiano. Il secondo è l’economia sostenibile, dove il cibo sia un elemento di grande forza». Per rafforzare il commercio di Roma, secondo Adriano Meloni, assessore allo sviluppo economico, turismo e lavoro di Roma Capitale, è necessario però superare «molti problemi legati al passato, come l’abusivismo commerciale che viene da decenni di situazioni poco regolamentate».

A tal proposito considera l'assessore «abbiamo individuato 146 aree rosse in cui intervenire. Con la polizia locale abbiamo ampliato i controlli, ma le unità non sono sufficienti, serve un sistema di presidio sul territorio per eliminare questo fenomeno». In merito alla situazione economica di Roma, Meloni sottolinea che«per rilanciare Roma dobbiamo fare sistema, ma un Pil da 140 mld di euro, è troppo basso per superare le altre capitali, cosi rischiamo di galleggiare».

D’accordo sul discorso del prodotto interno lordo anche Davide Bordoni, consigliere capitolino commissione commercio, «nei prossimi dieci anni deve raddoppiare per dare occupazione ed evitare la fuga dei giovani all’estero». Ma il problema principale che mina uno sviluppo equilibrato del commercio nelle 5 macroaree di Roma è normativo. «Ad oggi la nostra città ha gli stessi poteri di un comune di 5 mila abitanti, fattore che rende difficile l’approvazione di progetti importanti per l’economia cittadina” sottolinea Bordoni che cita l’esempio della Rinascente in via del Tritone. “Per realizzarlo ho dovuto approvare 38 deroghe, impensabile per Parigi o Londra».

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